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Un amore troppo puro


sigfried

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Era il pranzo dei cento giorni. Tranne chi cucinava, eravamo tutti seduti famelici al tavolo ma la pasta era ancora nel forno, e dissi ad Alessandro e a Marco che andavo in bagno. Uscii dal fienile, dove avevamo posizionato la mangiatoia sennò non ci stavamo, e mi diressi verso l’edificio della masseria. Dentro passai davanti alla cucina, scherzai con le ragazze che chiosavano sulla cottura mentre piluccavano formaggio e salsiccia secca, e più tardi avrebbero detto di essere a dieta, ed entrai nel bagno, che si trovava alla fine di un lungo corridoio, sulla destra: come è giusto che sia.

Ero andato per lavarmi le mani e sciacquarmi un po’ il viso, e per far passare un po’ più di tempo decisi di fare la pipì, così, per sport, un riflesso condizionato. Alzai la tavoletta e piegai la testa di lato, socchiudendo gli occhi incuriosito.

Che poteva mai essere quell’oggetto oblungo marrone scuro dalla vaga simmetria di un sigaro e dalle dimensioni del salame ungherese? Un missile balistico intercontinentale di circa quaranta centimetri per dieci di diametro, che dritto emergeva dalla pozza sul fondo della tazza del cesso, e a sprezzo della forza di gravità non era inclinato?

Era una meraviglia. Era perturbante. Una figura al tempo stesso conosciuta ed estranea. Quotidiana e aliena. E più la guardavi, più sembrava guardare in te. Potevi quasi vederci gli occhi. Occhi dal taglio obliquo, dallo sguardo persistente. Come avesse vita propria, e ti stesse sfidando in modo buffo, ci immaginavi una vocina, un misto tra Robert De Niro in Taxi Driver davanti allo specchio “dici a me” e Joe Pesci in Quei bravi ragazzi “Ti faccio ridere? Sto qua per divertirti? Come sarebbe buffo, buffo come, perché buffo?”

Ve lo giuro, io una cosa del genere non l’ho mai vista né prima né dopo.

Certo, direte che si trattava di normale cacca. Che la mia fascinazione era dovuta all’alterazione provocatami dal vino bevuto a stomaco vuoto e dai fumi passivi dell’erba fumata dagli altri. Ma di normale in quella cacca non c’era proprio nulla.

Superata la Sindrome di Stendhal, la parte del mio cervello analitica prese a considerare le varie opzioni su chi fosse il colpevole. I dinosauri erano estinti da milioni di anni. Lo sterco di elefante era simile a una colata di cemento. E King Kong non la faceva, o non si spiega perché l’isola non puzzasse come una gabbia gigante per canarini.

No. I possibili sospetti avevano un alibi. E io non avevo idea di chi fosse l’artefice.

Fallita la mia mini ricerca da detective votato al metodo induttivo, venne a galla dalla parte più recondita e autentica della mia anima, tutto lo spirito goliardico che mi aveva reso il leggendario autore degli scherzi misteriosi nell’intero liceo, sotto forma di una visione che definirla un capolavoro di genialità mostrerebbe appena uno spiraglio dell’immensa maestosità del mio pensiero boccaccesco.

Sì, lo so, l’umiltà è il mio più grande dono, ma torniamo alla mia idea geniale, che per metterla in pratica, mi occorreva l’aiuto di Alessandro e Marco. Così stavo per uscire, quando, con la mano sulla maniglia, un terrore gelante e umidiccio salì dallo scroto e dallo sfintere, mi aggrovigliò le viscere, e abbandonò il mio corpo sotto forma di una frase che suonò così: machecazzo. Tutta una parola.

Se qualcuno fosse entrato prima del mio ritorno con quei due filibustieri, avrebbe potuto pensare che quel parto prodigioso fosse mio. I testimoni oculari erano tanti: l’indiziato è stato visto entrare in bagno alle ore 13.05 e 43 secondi. Ed ero stato dentro troppo tempo, per poter dire di averlo trovato in quello stato ed essere credibile.

Machecazzo.

Mi trovai davanti a un dilemma. Distruggere quell’opera d’arte che meritava di essere esposta in un castello francese nei pressi di Parigi accanto al Metro Perfetto, o rischiare di diventare lo zimbello della scuola per qualcosa che non avevo fatto?

Optai per la diplomazia. Tirare lo scarico senza distruggerlo: sarebbe stata l’entropia, il caos, la forza centrifuga dello sciacquone, la furia degli elementi, l’erosione della natura e del tempo, a cancellare la prova che l’uomo discende dalle bestie. Anche se di bestie sconosciute all’uomo. Sconosciute persino a Piero Angela. In questo modo non mi sarei macchiato del crimine di iconoclasta. Ero un semplice strumento di una volontà superiore.

Tirai lo scarico – e non successe niente. Il tasto doveva essere rotto; sbuffai; avrei fatto manualmente; scoperchiai la vaschetta; era vuota; le pareti asciutte, le guarnizioni di gomma seccate e spezzatesi. Quel cesso non funzionava da prima che io nascessi.

Macheca… no. No. No. Se lo sciacquone non funzionava, ci sarebbe stato un secchio da qualche parte. Non dovevo smettere di ragionare. E se c’era un secchio, poteva trovarsi solo nella vasca celata da quella tenda di plastica con i fiorellini rosa shocking.

Spizzicandola alla maniera di in una mano di poker, scostai la tenda con un brivido. E come voi lettori immaginerete, il secchio non c’era.

Machecazzo.

Ora ero nei guai. E mi restava poco tempo. La pasta doveva essere pronta a momenti e la mia assenza al rancio sarebbe stata ultra-sospetta. Marco e Alessandro sarebbero venuti a cercarmi, urlando se ero finito giù – sottendendo la fogna, passatoci attraverso lo scarico. Ma cosa potevo fare? Anche se l’avessi spezzettato con lo scopino, senza acqua non sarebbe servito a niente.

Non lasciai che lo sconforto più tetro mi abbattesse. Mi guardai intorno in cerca di un rimedio. E lo trovai ben presto, lì, che mi fissava come un cobra sputatore. Il tubo della doccia. Avrei riempito la vaschetta con quello. Impugnai il soffione con grande virilità, e allungai il flessibile. Ma era corto di almeno trenta centimetri.

Nulla era perduto. Nulla. Aprii ugualmente l’acqua con l’intento di fare canestro. Pure questa soluzione, però, non era applicabile. La rosa del getto era troppo ampia.

Machecazzo.

Mi sedetti sulla vasca e presi la testa tra le mani, guardando di sbieco quel folletto maligno, di cui adesso potevo sentire la risata. Una risata discreta, educata. Che prendeva distanza dalla situazione e dimostrava la sua vittoria.

«Mi arrendo» dissi.

Sarei uscito dal bagno, e avrei sperato che il prossimo ci sarebbe andato dopo mangiato, o che anche lui finisse prigioniero della paura di essere accusato ingiustamente.

Tuttavia, non riuscivo a muovermi. E per certi versi quel mio temporeggiare fu una fortuna. Perché la porta venne scossa nel tentativo di aprirla, e meno male che l’avevo chiusa a chiave, e poi sentii una voce femminile, chiara, che conoscevo bene.

«Per favore fai presto. Chi c’è dentro?»

Era Anna. Anna la rossa che mi piaceva.

«Per favore rispondi.»

Anna la rossa che mi piaceva.

«Sto male, dai.»

Anna la rossa che mi piaceva.

Sbattendo la porta. «Non è uno scherzo, ti prego rispondi.»

Anna la rossa a cui non sarei mai più piaciuto.

Dovevo scappare da lì. La finestra era sopra la vasca. Abbastanza larga perché ci passassi. Dovevo solo sperare che oltre non ci fosse nessuno. Purtroppo il vetro smerigliato non mi permetteva di accertarmene se non dopo averla aperta. Rivolsi una muta preghiera a quel menhir ieratico che doveva rappresentare una divinità pagana e vendicativa, e aprii la finestra.

Machecazzo.

La finestra aveva non solo delle sbarre, c’era persino una zanzariera, così che l’idea alternativa di gettare quel feto diabolico fosse stroncata in partenza.

«Ti prego, rispondi.»

«Un attimo» dissi cercando di camuffare la voce.

«Luca sei tu?»

«Davide.»

«Luca per favore, sbrigati.»

«Mi sbrigo, ma sono Davide.»

«Non fare lo stronzo, Luca. Apri.»

Ora, carissimi lettori, vorrei potervi dire che mi chiamo Davide e che Anna era stata ingannata dalla mia imitazione. O che Luca fosse uno qualsiasi degli altri quaranta ragazzi e il mio vero nome era, che ne so, Ermenegildo. Vorrei dirvelo davvero. Tuttavia la risposta già la conoscete.

«Due minuti, Anna. Sto facendo il più presto possibile» dissi con la mia voce.

«Ma sei Luca? Perché ora fai questa voce strana? Ti ho detto che ho bisogno sul serio.»

Decisi di non sprecare tempo prezioso per dissertare sull’ironia insita nella beffa di essere riconosciuto cambiando voce, e non esserlo parlando normalmente, perché in due minuti dovevo trovare una soluzione, o potevo dire addio alla speranza di coronare il mio sogno d’amore che, ci crediate o meno, aveva in quel preciso momento un’importanza totalizzante da soverchiare qualsiasi altro problema esistenziale della mia vita passata, presente e futura, persino più importante di quella cacca, che però era l’ostacolo più grande alla mia storia d’amore.

Un’impresa disperata. Resa ancora più difficile dall’immagine oleografica di Anna che si teneva la pancia con le spalle contro la porta, Anna che si mordeva le labbra, Anna che pronunciava frasi mute dove mi augurava di morire in un modo orrendo da guardare ma lontano da lì, un’immagine cristallizzata sulla retina che mi occludeva in una bolla di dolore e tristezza che penetrava in ogni anfratto della mia anima, un’immagine che vedevo anche ad occhi chiusi, un’immagine che si sovrapponeva al contenuto dell’armadietto, pieno di bottigliette che avrei potuto usare per travasare, se avessi avuto più tempo.

Ok, l’ammetto, sto filodrammaticando, se mi passate il neologismo, ma ero disperato sul serio perché mi occorreva un rimedio rapido, e non riuscivo a trovarlo.

E se avessi abbassato la tavoletta e detto che era inagibile?

No. Non poteva funzionare. Dopo tutto quel tempo Anna non mi avrebbe creduto. E al momento di usarlo si sarebbe trovata davanti quell’infame munaciello che non realizzava desideri: li sommergeva in un oceano di merda.

«Hai finito?» mi urlò lei da dietro la porta.

«Trenta secondi» dissi.

Non mi restava che la mossa più disgustosa. Afferrare quel nano bastardo per il collo e farlo sparire da qualche parte. Avevo anche già individuato il nascondiglio, un recipiente per un detersivo con la bocca abbastanza grande per fagocitarlo. Sulla lavatrice c’era una busta che avrei usato come un guanto. E operai.

Lo confesso. Fu una cosa schifosa. Nonostante la guaina di plastica, mi sembrava di toccarlo con la pelle nuda. Al tatto, quella supposta a contromano, era viscida e dura. O la immaginavo così.  Riuscii ad allontanare per un attimo la nausea pensando al bruciore che aveva provato il suo abominevole genitore. Gli stava bene, cazzo. Gli auguravo mille di quelle cacche.

Fu una cosa lenta, anche. Temevo che si spezzasse. Ogni mio movimento era un’agonia di fatica, sudore e bestemmie. E l’immagine di Anna che si passava il pollice sulla gola pensandomi con gli occhi rossi e un sorriso che le trasfigurava il volto, non rendeva il lavoro più semplice.

Alla fine riuscii a estrarre quell’Excalibur tutta intera, ficcarla nel recipiente, e seppellire tutto nella lavatrice. Mi lavai le mani, e aprii.

Anna si buttò dentro cercando di spingermi fuori.

«Lo scarico non funziona» le dissi.

Lei mi fissò interdetta, poi scosse la testa. «La vaschetta è nel muro. C’è un bottone qua» e indicò un interruttore della luce. O che credevo fosse della luce. E lo premette, e un suono simile alle cascate del Niagara trascinò nelle cloache quel che restava della mia dignità.

Dai su, ditelo con me: machecazzo.

Ridotto a simulacro di uomo, che è quell’istanza metafisica dopo la larva umana, e senza più nulla da perdere, decisi che avrei potuto sopportare qualsiasi cosa, e dissi ad Anna che dovevo rivelarle una cosa importante.

«Parliamo dopo» rispose spingendomi fuori e chiudendomi la porta in faccia. Ma d’istinto misi la mano in mezzo, e lei mi schiacciò le dita, e io lanciai un aaahhh, e lei riaprì la porta. «Scusa» mi disse, «ma è colpa tua.» E attenta a non schiacciarmi altre dita, richiuse la porta con delicatezza.

Scacciato fuori, poggiai la fronte contro la porta. «Anna, io, devo dirti una cosa importantissima.»

«Non stare dietro, non ci riesco. Per favore Luca. Basta fare lo stronzo.»

«Se c’è qualcuno che ha fatto lo stronzo non sono di certo io!»

«Vattene!»

«Anna. Mi piaci davvero.»

La sua risposta, fu simile a un tuono.

 

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